dal 23 aprile al 1° ottobre 2009
Circa venticinque anni fa un motivo ricorreva nell’universo globale della comunicazione: glaznost, una parola russa che significava apertura, ma funzionava meglio come trasparenza. Un nuovo termine designava la possibilità di un nuovo sguardo su un mondo opaco, oscurato, verso un possibile nuovo. Il termine trasparenza ritorna con più forza nel glossario della comunicazione globale di questi giorni: trasparenza delle banche, dell’economia mondiale. Insomma la trasparenza sembra vivere in simbiosi con i termini oppositivi di oscurità, opacità. Nel senso scientifico la trasparenza è un fenomeno ottico che genera la luce e i colori, per rifrazione e incidenza. Nel senso artistico e poetico la trasparenza assume varianti polisemiche di straordinaria ampiezza.
Non si dà trasparenza se non per dis-velamento, la luce per essere percepita ha bisogno di oscurità. Le vetrate delle cattedrali, per trasparenza, traducevano la luce, addomesticavano i raggi del sole nel filtro dei colori e delle forme. Il vetro è la materia che consente di mostrare la luce e di produrre visione, in una pratica antica di trentamila anni. Impastato, trattato con il fuoco, soffiato, raffreddato, alla pratica del vetro partecipano tutti e quattro gli elementi. Per trasparenza un corpo immateriale si epifanizza nella realtà della luce. Ombre che appaiono, visioni consistenti, eppure effimere. L’arte consiste di una verità mobile e fragile, suscettibile delle interpretazioni quanto degli sguardi.
Alla banalità del presente, alla oscenità della sovraesposizione mediatica che non consente nascondimenti né discrezione, l’artista risponde con la trasparente fragilità dell’atto del vedere e del far vedere. La forma è visione, sguardo donato all’altro in uno sfondamento del reale.
Le sagome di Isabella Nurigiani si appalesano come fantasmi dall’angolo di rifrazione dello spazio architettonico. Disposte, esse hanno uno spazio e, al contempo, lo aprono drammaticamente, personae di un teatro interiore, come dono allo sguardo dello spettatore. La luce attraversa i manichini cristallini, come doppio riflesso di apparire umano(ide). Come eidos ed eidolon, essi sono lì per donarsi.
L’ambiente della galleria riporta il guardare verso le forme plastiche di una materia dura come il reale, ma plasmata nello spazio, per-formata, scolpita e levigata dallo sguardo e dalla mano dell’artista che ne traduce trasparenza e campo energetico. Nello spazio la forma crea uno spazio, aprendosi essa “dice poeticamente”.
I manichini, simulacri apollinei, riflettono la materia marmorea per suggerire che di ombre si sostanziano i sogni.
Steli trasparenti si elevano dal suolo per commensurare l’infinito. Uno spazio monocromo apre tutte le possibilità dei colori nella increspata superficie della materia pittorica.
Dario Evola